Le interviste

"Salviamo il Made in Italy, vale 50 miliardi di esportazioni" - Per dire stop al Parmesan serve un accordo bilaterale Ue-Usa. Intervista al Corriere della Sera

Luigi

Scordamaglia

Filiera Italia

Quest’anno l’agroalimentare centrerà l’obiettivo che si era dato all’Expo di Milano nel 2015: per la prima volta l’export supererà i 50 miliardi, anche se con un anno di ritardo per la pandemia. Ma per essere competitivi, oggi il marchio non basta più. Dobbiamo cambiare il racconto del Made in Italy.

Non basta un export record da oltre 50 miliardi?

“No, perche se cresce l’export agroalimentare, in proporzione cresce anche l’Italian sounding, il falso Made in Italy. Gli ultimi casi: il consorzio Usa Ccfn ha chiesto la registrazione in Cile di 3 nostre eccellenze”.

Ma è legale?

“Purtroppo nei Paesi fuori dalla Ue vige la tutela dei marchi solo se si è firmato un accordo bilaterale con il Paese terzo. Nel caso del Cile l’affronto è grave: non ci si limita a usare il nome comune, come parmesan, ma il nome registrato come Bologna e Asiago. Manca una struttura che ci tuteli, però siamo pronti a dare battaglia”.

Come?

“Chiederemo all’Unione europea che si costituisca formalmente”.

Dove c’è più falso Made in Italy nell’agroalimentare?

“Il falso nel nostro settore ha ormai superato i 100 miliardi di euro e aumenta ogni anno, più veloce dell’export. I più grandi taroccatori sono gli Stati Uniti, perché c’è molta richiesta di prodotti italiani e non ha un accordo bilaterale con la Ue: su circa 27 miliardi di dollari di prodotti alimentari venduti come Made in Italy, solo uno su 7 è vero, perché l’esportazione verso l’Usa, il nostro secondo mercato dopo la Germania, vale circa 4 miliardi e mezzo”.

Quindi come si argina il fenomeno?

“Bisogna cambiare la story telling, la comunicazione. Ne abbiamo parlato anche con l’Ice. Dobbiamo fare un vero e proprio country branding, parlare di life style a 360 gradi. Il food non è solo una questione di ricetta e materia prima, ma anche di sapienza di trasformazione millenaria, di territori, di varietà e di biodiversità. Oggi la filiera è il racconto non solo del prodotto, ma del territorio. Per esportare non è più sufficiente portare il prodotti in fiera. Dobbiamo organizzarci per coprire l’ultimo miglio della nostra distribuzione, perché se c’è richiesta e manca il prodotto vero, arriva il falso. Insieme alla regolamentazione, dobbiamo sviluppare un approccio di sistema e di filiera”.

Ma la filiera serve ancora?

“No, se è solo un incontro tra buyer e seller. Deve diventare un momento di racconto collettivo, porta d’ingresso per portare i grandi compratori internazionali sul territorio. La fiera evolve, diventa palcoscenico: in ottobre Milano sarà food city, grazie all’unione di Tutto food e Host. Però non basta ancora per vincere sui mercati globali”.

Che altro serve?

“La sostenibilità competitiva, che fa parte del racconto insieme al marchio, garanzia di qualità e sicurezza alimentare, alla filiera e al territorio. Pochi sanno che la nostra produzione agricola è la più sostenibile al mondo: produciamo il più alto valore aggiunto, pari a 60 miliardi di euro, con il più basso impatto ambientale, cioè emettendo 30 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti, circa il 7% di tutte le emissioni italiane”.

E gli altri?

“La Germania esporta più di noi, ma il valore aggiunto è inferiore ed emette 60 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti. Idem la Francia, con 67 milioni di tonnellate di CO2. Noi creiamo valore aggiunto, riducendo al massimo l’impatto ambientale”.

In che modo?

“Non tornando all’aratro ma, al contrario, usando tecnologie innovative. Siamo secondi al mondo per automazione nell’alimentare e stiamo diventando un modello globale per l’agricoltura di precisione , con l’utilizzo di satelliti e la geo-referenziazione, per trattare il singolo appezzamento con interventi sempre più personalizzati. Con l’analisi della composizione della terra e la geo-referenziazione, possiamo ridurre l’uso di semi, di acqua, di fertilizzanti. Questo è un pezzo di story telling che non siamo ancora riusciti a raccontare, ma sarà sempre più chiesto dai consumatori internazionali”.

Siete pronti a spendere le risorse del Pnrr del settore?

“Se consideriamo i contratti di filiera, lo logistica alimentare, il biometano, gli invasi per i sistemi di irrigazione, la digitalizzazione agricola, nel complesso arriviamo a un potenziale di 6,8 miliardi di euro. Come Filiera Italia abbiamo molti progetti pronti, piuttosto devono essere cantierabili: abbiamo bisogno che i singoli dicasteri attivino le procedure per la selezione dei piani. Poi servono le riforme: i procedimenti  autorizzativi vanno avanti per anni, serve una fast track”.